sabato 11 ottobre 2014

A Devil in Paris - Devil May Cry

Castiel cercava di prendersi cura di me al meglio che poteva, ma quel corso gli portava via un sacco di tempo. Non si trattava solo delle lezioni che dava ai futuri host, ma anche di appuntamenti e cene insieme ai responsabili del progetto. L'agenzia per la quale lavorava era composta per la maggior parte da donne, ed era inevitabile che lui ci avesse a che fare.
Quando riusciva a passare del tempo con me, mi chiedeva cosa avessi intenzione di fare e mi accontentava proprio come avrebbe fatto un padre con una bambina. Sembrava quasi il suo modo di farsi perdonare.
La maggior parte delle sere, però, era impegnato a soddisfare le altre. Non mi raccontava nulla, usciva senza accennare alla sua compagnia e tornava tardi. Molto tardi.
Io mi addormentavo solo quando lo sentivo rientrare, quando si sdraiava stancamente accanto a me. Non conoscevo i nomi, né i volti delle donne che frequentava, ma avevo imparato a distinguerle tra loro, e gli avevo affidato dei nomignoli. Ad esempio, quando Castiel usciva con B., i suoi vestiti restavano impregnati di un profumo femminile aggressivo e pungente. Se tornava da un appuntamento con R., gli trovavo addosso macchie di rossetto rosso sangue.
Quella che odiavo di più era N., perché sembrava consumarlo fino all'anima. Lo lasciava stanco, esausto e stressato, e lo teneva con sé fino a notte fonda, a volte fino al mattino.
Ero gelosa, ero gelosa da morire. Mi sforzavo di non pensarci, ma la mia mente vagava da sola a immaginare cosa quelle donne facessero con lui, e alcune notti piangevo a dirotto, mi chiudevo in bagno, abbracciavo la sua giacca, poi rimettevo tutto a posto e andavo a dormire.
Una sera, lui tornò a casa prima del previsto. Non lo sentii arrivare. Mentre piangevo, appoggiata con la schiena sulle piastrelle gelide, lui bussò alla porta del bagno, e mi chiamò delicatamente.
Sobbalzai. Non sapevo da quanto tempo fosse lì, ma ero certa che mi avesse sentito frignare e mugolare, perché lo facevo sempre ad alta voce. Cercai di rimettermi in sesto e uscii fingendomi disinvolta, ma lui mi sollevò il viso, vide i miei occhi gonfi e sconvolti, e sospirò pesantemente.
Mi guardò negli occhi. Sembrava dispiaciuto, ferito, frustrato.
"Scusami." mormorò.
Mi abbracciò e mi tenne stretta. Il tessuto del suo cappotto mi pungeva, anche attraverso la mia camicia da notte sottile.
"Mi dispiace." mi disse ancora, con la voce rauca.
"Non è colpa tua. Dovrei smetterla di pensarci, dopotutto me lo hai sempre detto..."
"Emily."
"Mi hai sempre detto che non abbiamo quel tipo di relazione, ma non riesco ancora ad abituarmi."
"Non devi essere gelosa di me."
"Lo so, lo so. Non sono l'unica, e non lo sarò mai."
Mi accarezzò i capelli e mi sussurrò qualcosa che mi provocò un brivido dietro la schiena:
"Però sei l'unica che mi fa stare bene. Delle altre non m'importa niente."

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